Basil Davidson

25 aprile 1945, tratto da  «Genova. Rivista del Comune», maggio 1949.

A poca distanza dai fatti fiorisce la memorialistica partigiana. Questo esempio, tratto dal periodico dell'amministrazione civica di Genova, mostra come la stagione di condivisione del ricordo coinvolga anche elementi esterni all'ambiente locale: l'ex comandante partigiano Giovanni Battista Canepa "Marzo" introduce il racconto della Liberazione vista da un soldato e giornalista statunitense.



Fu nel gennaio del ‘45 che conobbi Basil Davidson: lo conobbi a Carrega.
Era un colonnello e si diceva fosse nipote di un’alta personalità: ed io che già nella guerra passata avevo constatato quanto incapaci di adatta­mento fossero i nostri alleati, mi domandavo come questo personaggio avrebbe sopportato i disagi della vita partigiana.
E invece no: mangiava come noi castagnaccio, e con noi dormiva nei pagliai; per la verità s’era adat­tato magnificamente alla nostra vita.
Gli è che prima di venire nella sesta zona era stato con i partigiani jugoslavi e aveva combattuto per più di un anno in Bosnia, in Voivodina. Ed è appunto perché sapeva cos’erano i partigiani che si legò a noi d’amicizia.
Quando Genova fu libera gli conferimmo la citta­dinanza onoraria: e questo più di qualsiasi altro riconoscimento gli fu caro.
Seppi poi che aveva ripreso la sua antica professione (giornalista egli era, prima della guerra: redattore - se non sbaglio - dell’Economist; fece il corri­spondente da Parigi e poi diventò redattore capo di politica estera del Times).
Scrisse sulla Jugoslavia un libro intitolato Partisan Picture e da pochi giorni è uscito un suo romanzo che ha per sfondo la guerra partigiana nella nostra zona: Higway 40 e cioè la strada nella Val Trebbia.
Iniziamo con questo articolo scritto appositamente per la rivista “Genova”, una serie di documenta­zioni sulla liberazione della nostra città.

MARZO

25 aprile - Memorie 3

Mentre scrivo queste righe compiono quattro anni da quando, una certa mattina, ci trovavamo su per le pendici meridionali dell’Antola. Non eravamo in molti: vedevo Miro e Attilio (1) poi altri due o tre marciare avanti: dietro le mie spalle solo le nostre impronte nella neve. Impronte di partigiano.
C’eravamo mossi all’alba dal nostro quartiere di Fascia. Nella luce grigia ci eravamo spinti su per la collina sopra il villaggio ed avevamo attraversato il passo verso Caprile, ma non vi scendemmo perché eravamo diretti alla Val Brevenna e precisamente al villaggio di Pareto, così prendemmo per la montagna per scendere poi dalla parte opposta. Quando arri­vammo sulla cresta dell’Antola il sole ci stava a si­nistra; allora ci fermammo e guardammo verso il mare. La città era sotto di noi.
Per mesi la città era vissuta nelle nostre menti come un mistero, come una terra promessa, quasi un mito: sarebbe stata nostra presto ma non poteva essere nostra oggi. I partigiani della Sesta Zona par­lavano incessantemente di Genova e lo si poteva capire perché Genova era l’incarnazione di tutte le loro spe­ranze e le loro aspirazioni. Che quei ragazzi di Sestri e di Sturla, di Cornigliano e di Sampierdarena, della città vecchia e della città nuova, volessero andare a casa non era tutto. Naturalmente volevano andare a casa. Molti non vedevano la famiglia da sei mesi e anche più. Ciò che imprimeva al pensiero di Genova un carattere speciale, indimenticabile, persino eroico, era il fatto che l’entrata in Genova avrebbe significato la conquista di Genova e la sua liberazione dalle bande fasciste e dai loro protettori tedeschi. Quando i par­tigiani pensavano a Genova pensavano dunque all’aspra battaglia che avrebbe coronato la stanchezza e le lotte di quei duri mesi d’inverno e che avrebbe segnato con la loro entrata in città il trionfo della causa che essi sostenevano. Volevano andare a casa, sì, ma da uomini liberi.
Proprio quella mattina vi era in noi un’ansia particolare.
Rimanemmo per un po’ a guardare in direzione di Genova, vedendo poco eccetto il velo di bruma sopra la distesa della città oltre il Santa Maria Mad­dalena. Dopo qualche ora arrivammo a Pareto.
A Pareto la nostra vicinanza a Genova fece un gran balzo in avanti, perché là trovammo, secondo gli accordi, i delegati del C.L.N. La Genova dei partigiani, la Genova che viveva e sperava e contava per qualche cosa nel mondo era là davanti a noi. Nella specie due uomini, in cappello moscio e abito da città.
Parini e Maffi — voi certo sapete i loro veri nomi (2). Questo era l’altro aspetto del movimento di liberazione nazionale: non l’aperta guerriglia delle montagne, le interminabili marce d’inverno, la fame e la stanchezza e il senso della solitudine ; qui c’era qualcosa di diverso. Mi misi a sedere e ad ascoltare mentre essi parlavano a Miro e Attilio. Raccontarono la storia delle ultime settimane, dell’imprigiona­mento e della tortura quasi certa dei loro compagni Rossi (3), Faralli e degli altri del Comitato che la Gestapo aveva presi, del blocco della città che era stato rinnovato, dei cambiamenti di domicilio di giorno e di notte, dei contatti interrotti e penosamente ristabiliti, del senso continuo di pericolo che esaspera e mina i nervi di coloro che combattono in un mo­vimento clandestino. Dovrei aggiungere che Parini e Maffi non dissero tutto questo: dissero il meno pos­sibile e lasciarono alla nostra immaginazione di indo­vinare il resto. Erano calmi e tranquilli, sicuri di sé senza vanteria, avidi di notizie sui nostri progressi in montagna senza però mostrare ansietà. In seguito, dopo che eravamo entrati a Genova, conobbi altri membri del Comitato di Liberazione ed erano tutti così, calmi e fiduciosi, senza spacconeria, consci che molto dipendeva dalla loro capacità di prendere la giusta decisione e di agire in conseguenza.
Non so se questi uomini che avevano preso il comando fossero dotati di speciale coraggio o di spe­ciale intelligenza; ma so che le particolari condizioni di quegli anni e di quei mesi, dal settembre 1943, li avevano resi tali.
Chiesi: “Come siete organizzati a Genova per assumere l’amministrazione civile della città? ”. Era un punto capitale. In altre città prese al nemico dalle nostre truppe e non dal movimento di liberazione na­zionale gli alleati avevano dovuto provvedere all' am­ministrazione civile e militare. E per Genova?
“Siamo bene organizzati — dissero Parini e Maffi — Siamo in grado di governare la città do­mani. Siamo in grado di governarla appena i tedeschi ne avranno perso il controllo. I fascisti non contano, non sarebbero niente senza i tedeschi”.
Circa un mese più tardi, quando la battaglia per Genova era finita e gli alleati portarono con sé gli uomini per il loro governo militare io dovevo ricordarmi questa risposta: non era una spacconata. Voi sapete meglio di me che il C.L.N. amministrò effetti­vamente la città. Questo non impedì ai brigadieri e ai colonnelli del governo militare di soffocare la vita del C.L.N. come corpo amministrativo. Ma questa è un’ altra storia ...

* * *


Alla metà di aprile sapevamo che presto sarem­mo scesi in città. Le speranze ardevano alte. Dap­pertutto i ragazzi erano impazienti di cominciare l’assalto.
Poi arrivò la notizia indimenticabile. Il popolo di Genova aveva preso le armi. Si era impadronito di Sestri, aveva occupato l’Ansaldo... Il Comitato aveva proclamato la sua autorità. Si combatteva per le strade.
Quella notte eravamo a Torriglia. Tutto il giorno le unità della Sesta Zona avevano marciato duro verso le loro posizioni intorno alla città. Il no­stro anello di acciaio si stava chiudendo sui tedeschi. Da Genova arrivavano notizie per radio e così il mondo intero seppe ciò che stava accadendo.
Chi sarebbe sceso subito in città? Tutti volevano andarci. Infine si decise che Attilio sarebbe penetrato in città e avrebbe stabilito un contatto effettivo cosic­ché vi potesse essere uno stretto collegamento fra le nostre unità in marcia e il popolo che stava combat­tendo in Genova.
Dissi che volevo andare anch’io ed essi dissero che potevo.
Quello fu un viaggio che non dimenticherò. Prendemmo un’automobile, un trabiccolo di aspetto modesto, senza pretese, che non s’era mai avventu­rato in grandi imprese ma aveva trascorso la sua lunga vita in umile oscurità. Non andava troppo bene, ma ciò non aveva importanza perché doveva andare sol­tanto in discesa. Arrivammo alla Scoffera, Attilio, io ed altri due, con i nostri fucili puntati attraverso i finestrini aperti e giù a ruota libera nella notte.
Le luci nei villaggi al di là della valle erano come un paese fatato. Passammo per luoghi che i fascisti avevano tenuto per mesi. Forse erano ancora là. Non ci fermammo a chiedere.
L’automobile correva asma­tica giù per la collina e noi la lasciavamo correre. Poi, fuori Prato, incontrammo le prime pattuglie. Ci fe­cero fermare non una ma venti volte, pattuglie ogni cento metri o press’a poco — il popolo in armi.
E così avanti, i cuori in alto, al centro della città.
Là trovammo Bini (4) che stava sfornando il suo giornale. L’indomani i giornali di tutti i partiti si sarebbero venduti per le strade. C’era quiete, e calma, e ordine. Bini telefonò a qualcuno e quel qual­cuno ci diede delle istruzioni: rientrammo nel nostro macinino e prendemmo la strada verso un monastero.
Una porta si aprì silenziosa. Mormorii, Poi lun­ghi corridoi freddi, stanze vuote, oscurità. Si aprì un’altra porta e trovammo il Comitato: Parini, Scappini (5) e coloro i cui nomi Genova non avrà dimen­ticato. Erano esausti perché nessuno dormiva da gior­ni e tutti avevano vissuto momenti di tormentosa ansietà. Ma ci accolsero come se fossimo stati noi e non loro che avevano bisogno di riposo e di sonno.
Mentre il sergente Armstrong, mio operatore telegrafista (era venuto anche lui al completo con la sua scatola di aggeggi) stava montando l’apparecchio radio perché potessimo comunicare con esattezza alla V Armata che cosa accadeva e mentre sopra la nostra testa una batteria di artiglieria leggera stava martel­lando certi edifici in porto occupati dai tedeschi, l’ul­timo grande atto di questa storia andava compien­dosi. Scappini parlava al telefono...
Continuò a parlare nel microfono per un po’. Non feci molta attenzione, sebbene vedessi che gli altri tendevano le orecchie, perché dovevo cifrare un messaggio a Base. ”Genova nelle mani dei patrioti — volevo dir loro — i tedeschi resistono”: tutto dipen­deva però dal fatto che Giorgio potesse o no stabilire un contatto radio.
“Ce la fai Giorgio?”
“Credo di sì, non son sicuro”.
Il tempo passava, Giorgio trafficava con l’apparecchio senza successo. Trasmetteva segnali ma nessuno rispondeva.
Andai a chiedere a Parini che cosa succedeva, C' era un’espressione di gioia nei suoi occhi quando lo trovai.
“Entra ” — mi disse.
Entrammo in una stanza più piccola. Il Comitato era riunito. Stavano dicendo qualche cosa, i volti vi­vidi per l’entusiasmo. Era una stanza stretta, buia, dal soffitto alto, dedicata da anni e forse da secoli alle pre­ghiere e agli affari privati del monastero. Ma quella notte avrebbe potuto essere la spaziosa sala di S. Pietro.
“Abbiamo appena saputo – Parini disse – abbiamo appena saputo che i tedeschi si sono arresi a noi. Il generale Meinhold ha ceduto. Egli si è arreso: a noi”.
Forse ho detto qualche cosa, e forse no. Spero di sì sebbene vi siano momenti in cui le parole non sono che uno sciupio di tempo. Uscii da quella stanzetta scura ma non di meno piena di luce e ritornai da Giorgio.
“Ecco…” — cominciai.
Giorgio mi fermò con una parola: “Tutto bene. Ci sono: finalmente mi hanno sentito. Ora possiamo dirglielo”.
“Sì — feci io — ora possiamo dirglielo. Certo che possiamo dirglielo”.

* * *

Un ultimo ricordo, se Marzo è paziente con me.
Verso sera il giorno dopo, 26 aprile.
Circa diecimila tedeschi resistevano ancora, op­pure non avevano ancora ricevuto l’ordine di resa del generale Meinhold.
Non avendo più bisogno di nascondersi il Co­mitato aveva trasportato il suo Quartiere Generale all’Hotel Bristol. Su, al terzo piano, installati più co­modamente di quanto meritassero, c’erano il generale Meinhold e il suo aiutante di campo. La città era in mano dei patrioti, ma dov’era la V Armata? Dove erano gli Alleati? Sarebbe stata buona cosa saperlo.
Qualcuno fece una proposta: “Perché non telefo­niamo a Rapallo? La linea è ancora intatta. Là potreb­bero sapere qualcosa o telefonare a Chiavari”.
Chiamammo Rapallo.
“Vedi se puoi parlare con un americano” — mi dissero.
Presi l’apparecchio e mi misi in ascolto. All’al­tro capo del filo, a Rapallo, qualcuno gridava dentro il microfono: mi misi a gridare anch’io. Il Comitato osservava in ascolto.
“Avete visto degli americani?” — strillai.
“Certo — la voce rispose spazientita — alcuni di loro. Cosa c è?”
“Potete trovarne uno e farlo parlare con me?”.
“Perché?”.
“Non importa il perché. Andate a pescarne uno. Uno qualunque”.
La persona all’ altro capo mise giù il ricevitore e ci fu silenzio. Poi un’ altra voce, inequivocabile:
“Say — disse — What do you want?” (Cosa scocci? cosa ti manca?).
Glielo dissi.
Arrivarono il mattino dopo.
Nel frattempo, mentre essi erano per strada, ci fu molto da fare. Molti tedeschi dovevano ancora essere ficcati dietro il filo spinato. Proprio quel pomeriggio un forte contingente aveva cercato di uscire dal porto e aveva fallito perché i patrioti, inferiori di numero e di fucili, ma non di spirito, lì avevano cacciati indietro.
Miro e Manes (6) stavano per accettare la resa di alcune migliaia che si erano barricati nei grattacieli alla Foce e che avevano smesso di combattere, ma si rifiutavano di uscire dall’edificio e di arrendersi perché, senza dubbio, avevano la coscienza sporca e temevano — senza ragione, come poi constatarono — che il popolo di Genova si sarebbe vendicato di loro.
Ce ne andammo giù per la strada tutti e tre insie­me. Il grattacielo, quando arrivammo, presentava uno spettacolo curioso. Da ogni finestra di quel possente edificio sporgevano delle teste, teste tedesche, a centi­naia e migliaia. Sullo spiazzo ai piedi del grattacielo c’era un vero arsenale di armi: cannoni anticarro, mitragliatrici su piedestalli fissi, mortai, pile di muni­zioni. Dietro di noi, rannicchiati in posizione di fuoco ed ammassati ad ogni angolo, c’erano dei patrioti pronti a impedire ai tedeschi di scappare.
Camminavamo nel bel mezzo della strada sotto lo sguardo di quella moltitudine di occhi.
Quando fummo vicino al filo spinato gridammo alle sentinelle di dire al loro comandante chi eravamo.
Dopo un po’ due ufficiali, molto corretti nelle loro rigide uniformi di marina, si aprirono il varco attraverso il filo spinato.
Volevano parlamentare nella strada ma noi non accettammo e li portammo in un appartamento vicino dove una povera massaia, colta di sorpresa da questa stupefacente apparizione e incerta se ridere o piangere, ci fece entrare in fretta nel suo salotto.
Vi fu un po’ di discussione e da parte nostra qualche parola ben chiara prima che gli ufficiali accet­tassero di arrendersi con tutti i loro uomini.
Tornammo in strada e ci allontanammo girando la schiena a tutti quegli occhi curiosi...
E fu forse questo il migliore modo di finire la guerra.
Da una parte i tedeschi a migliaia, ben nutriti, perfettamente armati, evidentemente ancora buoni per un combattimento, ma ridotti ad arrendersi: gli orgo­gliosi conquistatori erano sconfitti.
Dall’altra parte coloro che li avevano sconfitti, il popolo di Genova, affamato, stanco, miseramente armato, scarso di numero, eppure trionfatore.





Note:
1) Miro - il triestino Ukmar: attualmente in Jugoslavia.
Attilio - Amino Pizzorno, vice segretario della FIOM, consigliere comu­nale di Genova. Allora commissario politico della VI Zona.
2) Parini – l’Avv. Enrico Martino rappresentante dei P.L.I. nei C.L.N. Prefetto di Genova della Liberazione - attualmente ministro plenipotenziario d’Italia a Belgrado.
Maffi – On. Secondo Pessi segretario regionale del P.C.I. della Liguria. Allora rappresentante del P.C.I. in seno al C.L.N.
3) Rossi - Pìeragostini Raffaele Comandante regionale delle brigate Garibaldi, designato dal P.C. ad esser sindaco di Genova, fucilato dai tedeschi a Bornasco.
Faralli - On.Vannuccio Faralli, Sindaco della Liberazione a Genova.
4) Bini - On. Serbandini Giovanni - Direttore dell’organo del P.C.I. “L’Unità” di Genova - allora commissario politico e poi capo dell’ ufficio stampa della VI Zona.
5) Scappini - On. Remo Scappini presidente del C.L.N. attualmente segre­tario della Federazione del P.C.I. di Pisa.
6) Manes – On. Carlo Farini – attualmente segretario Federazione P.C.I. di Terni.

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