Pittaluga racconta
Alla memorialistica partigiana si uniscono voci di personalità di primo piano della politica repubblicana. Lo stralcio che vi presentiamo ad esempio è un testo di Paolo Emilio Taviani, membro del CNL di Genova, eletto all'Assemblea Costituente, parlamentare, più volte sottosegretario e ministro, nominato infine senatore a vita nel 1991; all'Archivio di Stato di Genova lo ha legato inoltre la passione per gli studi storici e in particolare sulla figura di Cristoforo Colombo di cui fu certo uno dei più profondi conoscitori. La sua raccolta di opere e opuscoli storici di tema colombiano è stata donata alla Biblioteca civica Berio di Genova; le carte del suo archivio personale sono conservate presso il Senato.
Testo tratto da Paolo Emilio Taviani, Pittaluga racconta: romanzo di fatti veri (1943-45), Genova, Ecig, 1988, pp. 183-196.
L’incubo del fronte sul Po
I componenti del CLN tenevano nel portafoglio un’immagine sacra in una busta sigillata.
Pittaluga, a cui toccava per turno la presidenza, diede a Zavetti l’incarico di passar parola: — Aprire la busta.
L’immagine era di San Nicola. Gli è dedicata una chiesa nella Genova alta. Nell’istituto, che sta accanto, il CLN si radunò.
Le nove della sera del 23 aprile.
Il Comando germanico aveva fatto sapere al Vescovo Siri — questi a Pittaluga, che ne riferì subito in apertura di seduta — d’esser disposto a non distruggere gli impianti, se il CLN si fosse impegnato a quattro giorni di tregua.
Come ci si poteva fidare? C’erano state proposte simili anche a Roma, il 9 settembre del ‘43, con le ben note conseguenze. E c’erano state situazioni simili nell’estate del ‘44, gli eccidi di San Terenzio Bárdine e delle Fosse del Frigido sul fronte tirrenico della Gotica nei pressi di Carrara.
Dopo breve discussione, fu deciso di rifiutare ogni trattativa. Mancava però l’accordo sui tempi dell’insurrezione.
Immediatamente o aspettare? Sul dilemma il dialogo si fece subito serrato; la problematica, irta di contrasti, si sviluppò con accenti polemici e duri; rasentò il rischio di un'irrimediabile spaccatura.
— Insorgere contro i tedeschi? Certo, il nostro lavoro di tanti mesi è stato condotto a questo fine. Ma in quale momento? Sono già in moto i partigiani dei monti? C’è la possibilità concreta di salvare almeno il porto?
— Bisogna insorgere senz’altro, anche se si dovesse subire la distruzione del porto. Il popolo genovese, tutto il popolo si muoverà.
— Se dall’ordine intempestivo d’insorgere derivasse la distruzione del porto, il peso cadrebbe su di noi.
— Che importa? Prendiamo le disposizioni giuste. Preoccupiamoci della popolazione e della città, non delle nostre responsabilità.
— I tedeschi però sono ancora in grado di sopraffare, con la Decima Mas, le forze partigiane di città. Almeno se non giungono rapidamente i nostri della montagna.
— Ero in zona proprio venerdì scorso con Pittaluga; la questione è superata. Miro ha assicurato che c’è ormai accordo con la missione alleata e il piano operativo del Comando Regionale sarà realizzato. Hanno avuto ordini precisi, perentorii: l’obiettivo è evitare a qualsiasi costo l’ultimo fronte sul Po.
— Non perdiamo tempo con le procedure. A Genova ci sono 5 mila tedeschi, più i repubblichini, 1200 di marina di porto, 2 mila a Uscio.
— Più quelli che si stanno ritirando dal fronte di Sarzana.
— Ripiegano su Genova?
— Certamente, e quando arriveranno saranno altre migliaia di uomini, molte migliaia.
— Ci saranno allora anche i nostri della montagna.
— Al momento però non abbiamo a disposizione che le forze di città, le Sap; il loro armamento è scarso. Si arrangeranno con le armi tolte ai nemici. Abbiamo mobilitato le Sap per azioni di guerriglia intensiva. Non è stato dato l’ordine di aprire il fronte in città. Se lo aprissimo, verremmo sopraffatti dai tedeschi.
— Ma vi rendete conto che dipende da ciò che farà Genova se la guerra in Italia durerà ancora dei mesi? Ce l'ha detto Stuart giovedì scorso, ma non c’era bisogno che lo dicesse lui. Sappiamo bene che il piano Kesselring prevede un’ultima difesa sul Po. È già pronto da tempo. Se la divisione tedesca che sta fra Genova e Busalla ripiega tranquillamente, come hanno proposto a Monsignor Siri, le divisioni tedesche della linea gotica ripiegheranno altrettanto tranquille per l’Aurelia, attraverseranno la città o i dintorni (hanno costruito apposta una strada a Bavari) e tranquillamente valicheranno i Giovi... Sapete bene come stiano presidiando i due valichi: sulla statale e sull’autostrada. Se li lasciamo fare, la linea del Po sarà loro garantita. I tedeschi li conoscete, gli alleati pure. Avete visto con quanta prudenza hanno risalito la penisola. Si diceva che sarebbero arrivati qui all’Immacolata del ’43! È già lontana l’Immacolata del ’44. Se ne andranno dal Po, se non proprio all’Immacolata di quest’anno, certo non prima dell’estate. Altri centomila morti come sulla Gotica dell’Adriatico e decine di migliaia di nostri partigiani! Centinaia di città e di paesi distrutti: tutta la riva destra del Po subirà la sorte della Romagna dell’inverno scorso. L’insurrezione è un rischio, un rischio per noi e tutti i nostri; ve la prendete la responsabilità, per risparmiare un certo numero di vite umane, di sacrificarne centomila?
— Un certo numero, dici tu. Sarà una strage! Distruggeranno tutta Genova, non soltanto il porto. Cadranno tedeschi e partigiani ma anche migliaia di cittadini inermi.
— Sei catastrofico. E perché non vedi la catastrofe alternativa: tutta l’Italia del Nord in fiamme per un altro mese?
— Ma il rischio immediato è, sì o no, enorme?
— E’ dal 9 settembre di due anni fa che rischiamo e provochiamo rischi per noi, per le nostre famiglie e per tanti altri che neppure lo sanno…
— Dunque due sono le ipotesi. Primo: l’insurrezione. O siamo pronti a farla, o non la facciamo, non possiamo proclamarci governo davanti alla popolazione, finché non ne assumiamo il comando e la responsabilità. Secondo: l’armistizio. Lo fanno supporre le notizie fornite da Monsignor Siri e l’esodo delle forze da Genova. Ci assicurano pure che in questura e in prefettura non ci sarà resistenza; bisogna avvertire i reparti Sap che nei due enti non troverebbero resistenza.
— La sezione politica della questura c’è ancora?
— Si è allontanata, almeno i dirigenti. Gli agenti della sezione vanno internati in campo di concentramento.
— Finché il CLN non prende in mano il potere non può dare ordini alla questura; può darli soltanto in forma minatoria, cospirativa. Il CNL non può accettare d’essere a capo di queste forze, finché non le ha riconosciute come forze di polizia.
— In conclusione?
— Ritengo che si debba dare subito l’ordine dell’insurrezione.
— Ritengo che non si debba dare subito. Dobbiamo avere la certezza che si siano mossi i partigiani della montagna. Altrimenti rischiamo di fare la fine di Varsavia!
Finalmente la parola era stata pronunciata. Lo spettro di Varsavia gravava sui capi partigiani: un’insurrezione prematura, soffocata nel sangue, e la responsabilità del massacro sulle spalle della resistenza e dei suoi partiti.
Pittaluga sospese la seduta.
Parini gli si avvicinò.
— Bisogna agire, oltretutto l’insurrezione si scatenerebbe egualmente. Lo stato d’animo dei ragazzi l’hai visto anche tu. Credi che stiano fermi? Dobbiamo deciderla, proclamarla, orientarla, dirigerla.
Curti s’inserì nel dialogo: — Gli Alleati non sono ancora entrati alla Spezia. E’ peggio di Varsavia. Là c’era soltanto un fiume di mezzo. Qui ci sono fra loro e noi cento chilometri di strada, e che strada, l’Aurelia!
Parini tagliò corto: — Però adesso il morale dei tedeschi è a pezzi e i repubblichini se la squagliano.
La seduta riprese.
— Di qui non si esce senza aver deciso. Siccome l’unanimità non c’è, si deliberi all’unanimità che per la questione in oggetto decideremo a maggioranza.
— Scuola dei gesuiti — brontolò Curti —, ma ci stettero tutti. Non c’era tempo da perdere.
Suonò la mezzanotte.
Con quattro voti contro due il CLN deliberò l’ordine dell’insurrezione.
L’insurrezione
Alle quattro del mattino i primi colpi di fucile. Subito dopo, le raffiche di mitraglia. Alle cinque, sempre più frequenti, i colpi di cannone e di mortaio.
Alle dieci, il palazzo del comune, la questura, le carceri di Marassi, i telefoni sono in mano del popolo in rivolta. Le Sap si sono moltiplicate. Ai predisposti quattro comandi di settore — Sestri Ponente, Val Polcevera, Genova Centro, Albaro Nervi — è un continuo affluire di nuove squadre che, lì per lì, si costituiscono con le armi tolte ai repubblichini.
Dei fascisti non rimaneva che la Decima Mas in porto. I tedeschi apparivano disposti all’estrema resistenza per mettere in atto, secondo i piani, il ripiegamento.
Abbattuti alcuni pali a traliccio, la circolazione ferroviaria, lungo la costa e verso il Piemonte, risultava interrotta e intralciava i movimenti delle truppe germaniche in ritirata. I ferrovieri avevano smontato alcune bielle e valvole delle locomotive per impedire, al momento critico, anche la trazione a vapore.
Nella notte, qualche colonna tedesca era riuscita a lasciare il centro della città, ma qui rimaneva ancora il grosso delle forze.
Durissima la battaglia al centro, in piazza De Ferrari: dove trecento tedeschi furono dispersi, 3 canoni conquistati, esplosi due autocarri carichi di munizioni. I ragazzi delle squadre cittadine erano andati all’assalto contro i cannoni anticarro che sparavano con l’alzo a zero.
Sempre quella mattina, la banda di Raffe, un manovale di Pré, ripulì dai tedeschi la parte vecchia della città. Altro durissimo scontro alla sera contro una colonna superiore di forze, che cercava di aprirsi la via verso il Nord: la via fu sbarrata e i tedeschi dovettero rientrare nel porto, unendosi ai reparti di marina, che vi stavano asserragliati.
Episodi d’incredibile coraggio. Pittaluga vide — in vico Casana — un partigiano sparare gli ultimi colpi, quando già fegato e viscere stavano uscendo dal ventre squarciato.
Estrose azioni delle Sap tagliavano intanto la corrente elettrica e l’acqua ai presidii nemici, riuscendo a non disturbarne l’erogazione al resto della città e alle forze patriottiche.
Gli abitati di Sestri Ponente, Cornigliano, Pontedecimo, Bolzaneto, Rivarolo, Quarto e Quinto erano caduti fin dal mattino del 24, in mano agli insorti. Mancava, tuttavia, la continuità territoriale fra le loro posizioni e il centro cittadino.
Dopo il tentativo del mattino, fallito in piazza De Ferrari, un’altra colonna tedesca cercò, nelle prime ore del pomeriggio, d’attraversare la città. Attaccata dai patrioti, riusciva a sfondare, ma era fermata sopra Principe, dove peraltro ingrossava il nucleo che già vi resisteva.
A ponente: da Sampierdarena telefonano che i tedeschi hanno catturato una ventina di donne e bambini in ostaggio e minacciano d’ucciderli, se i patrioti non daranno via libera. I medici avvertono che la situazione è insostenibile: i feriti aumentano d’ora in ora; non ci sono più letti; i tedeschi premono da ogni lato. Sulla camionale per Milano le colonne nemiche, bloccate nelle gallerie, tentano sortite: non possono più a lungo restare prive d’acqua.
A levante: da Sturla telefonano che il ponte resiste a ogni costo, e non c’è modo di stabilire un contatto con le forze patriottiche di Quarto e di Quinto.
La sera del 24 si chiude in una cupa atmosfera. La guerriglia nel centro della città si poteva dire terminata. Ma nuclei di resistenza nemici permanevano all’Istituto Idrografico della Marina, a Principe, in Albaro, in via Giordano Bruno: in mano nemica erano il porto, lo spiazzo della camionale, la fortezza di San Benigno e Belvedere. A ponente, resistevano le batterie d’Arenzano, nuclei di fanteria a Voltri, all’Ilva di Prà, nella munita Villa Raggio e a Coronata (le due ultime posizioni sbarravano il collegamento fra la periferia di ponente e il centro). In Val Polcevera, nuclei nemici presidiavano ancora alcune gallerie della camionale, e le alture di San Quirico e della Murta. A levante i tedeschi difendevano strenuamente il ponte di Sturla, la Villa Eden di Nervi e le batterie pesanti di Monte Moro.
La situazione era ancora più tragica, per la precisa e categorica minaccia che, dal Comando di Savignone, inviava il generale Meinhold: aprire il fuoco su Genova con le batterie pesanti di Monte Moro e con quelle leggere del porto, qualora non si lasciassero evacuare in ordine le truppe tedesche.
Gli americani avevano appena raggiunto La Spezia, distanti dunque più di cento chilometri: cento chilometri della vecchia Aurelia, con i contrafforti del Bracco, delle Grazie e della Ruta, con oltre cinquecento curve e cinquanta ponti o viadotti. Le brigate partigiane dei monti avrebbero potuto giungere in città nella migliore delle ipotesi non prima del pomeriggio del giorno seguente.
Fin dalla sera innanzi il Comitato era conscio del rischio che accadesse a Genova quel che era successo a Varsavia; ora se ne profilava un altro: che una ripresa tedesca riuscisse così sanguinosa come quella verificatasi, sia pure per poche ore, durante l’insurrezione di Parigi.
Adesso però — .a differenza della sera prima — non c’era più il problema di fidarsi o meno della parola del nemico; adesso il Comitato poteva trattare in termini di forza: aveva nelle sue mani un numero cospicuo di prigionieri tedeschi, non meno di settecento. Qualcuno diceva addirittura mille. Perciò decide d’inviare una lettera - ultimatum al gen. Meinhold: porta il timbro del Comitato di Liberazione Liguria.
Nella notte, il prof. Stefano parte per Savignone su di un’autoambulanza della Croce Rossa. Ha con sé la lettera del CLN e quella del cardinale Botto.
Ore quattro del mattino, Gian Paolo Novara, Gianni Dagnino — comandanti di squadra DC — ritirano dalla sede del CLN sten e bombe a mano e partono con l’ordine di conquistare l’altura di Granarolo, dove sta l’impianto della radio.
Alba del 25 aprile: riprende la battaglia, praticamente in tutta la città.
Ore nove: le Sap di Sestri, dopo ripetuti, sanguinosi attacchi, espugnano il Castello Raggio. Si stabilisce così il collegamento fra le delegazioni del Ponente e il centro cittadino.
Ore nove e trenta: si arrendono i presidii di Voltri e di Prà.
Ore nove e quarantacinque: si arrendono le batterie di Arenzano.
Fra le nove e trenta e le dieci e trenta: le Sap conquistano Piazza Acquaverde (ma non la Stazione Principe), le caserme di Sturla, l’ospedale di Rivarolo e alcuni punti di resistenza in Val Polcevera. Intanto il dottor Romanzi arriva a Savignone, consegna le due lettere al gen. Meinhold. Dopo un rapido esame della situazione, sulla base delle telefonate che giungono dalla città, il generale decide di recarsi a Genova per trattare la resa. Quale sede delle trattative viene scelta la residenza provvisoria del card. Boetto e di mons. Siri, Villa Migone (San Fruttuoso).
Ore dodici: Dagnino e Novara comunicano che i giovani Enzo Martino e Gianni Baget Bozzo, a capo d’un pugno di ardimentosi, sfidando il fuoco incrociato delle batterie tedesche di Principe e di San Benigno, hanno raggiunto la stazione radio sull’altura di Granarolo. I mortai tedeschi del porto non riescono — per il gioco delle traiettorie — a battere la stazione, anche se ne tengono sotto tiro ogni via di accesso.
Ore tredici: le Sap espugnano, con gravissime perdite, il ponte di Sturla.
Ore tredici e trenta: il gen. Meinhold e i suoi accompagnatori, giunti con il professor Stefano in città, si rifugiano nella galleria della Lanterna (o della Cava). Quindi, scortati da due partigiani in motocicletta, si recano a Villa Migone, dove si trova già il console tedesco Von Ertzdorf.
Ore diciassette: iniziano le trattative di resa. Rappresentano il CLN Giovanni e Parini.
Ore diciassette e trenta: un grosso contingente dei reparti acquartierati nel porto (i repubblichini della X Mas, i territoriali tedeschi, ma non i mortai della Marina germanica) si arrendono ai partigiani.
Ore diciotto: rimangono ancora in mano tedesca, oltre le postazioni dei mortai nel porto, la stazione Principe, l’altura di San Benigno, alcune piazze e strade in Albaro, l’albergo Eden di Nervi e Monte Moro con le sue batterie.
Ore diciannove: da Savona Carlo Russo telefona che anche là sono insorti: «Parecchi caduti, fra i quali il carissimo amico Ronzello, ma la città è ormai quasi interamente in mano nostra». Primo a entrarvi è stato Lelio con i suoi uomini.
Ore diciannove e trenta: firma, a villa Migone, dell’atto di resa dei tedeschi. Prevede l’entrata in vigore per le ore 9 del giorno successivo (26 aprile).
Prima che la resa venisse firmata si era fatta la conta dei militari tedeschi prigionieri degli insorti della città: 1360. Numerosi altri sono stati e saranno catturati dai partigiani che stanno calando dalla montagna.
Ore ventiquattro e trenta: il colonnello Davidson, comandante in capo delle missioni alleate, giunge alla sede del CLN. Su di un’Appia, impavido nel frastuono della guerriglia, lo ha portato Leo.
Giovedì 26 aprile. Ore quattro e trenta: mediante un parziale sblocco dei telefoni (in mano ai partigiani) il gen. Meinhold trasmette da Villa Migone l’ordine di resa dei presidii tedeschi che ancora resistono: il capitano della Marina germanica Berninghaus si oppone all’ordine del generale e ne dichiara in nome del Fuhrer la condanna a morte.
Continueranno dunque a combattere i reparti di marina che da lui dipendono: i mortai del porto e quelli pesanti di Monte Moro.
Ore 7 circa: il colonnello aiutante di campo del gen. Meinhold si suicida a Villa Migone.
Ore 9: Pittaluga, superando lo sbarramento dei mortai del porto, raggiunge la stazione radio di Granarolo e dà l’annuncio ai genovesi e al mondo: «Genova è libera. Genova è libera: popolo genovese esulta! Per la prima volta nella storia di questa guerra un corpo d’esercito si è arreso dinanzi alle forze spontanee di un popolo: il popolo genovese».
Ore nove e quarantacinque: dalla radio, Pittaluga si reca in Prefettura per insediarvi l’avv. Errico Martino (Parini) designato prefetto dal CLN Liguria. Nell’anticamera dell’ufficio prefettizio s’incontra con due ufficiali tedeschi che erano venuti ad annunciare ufficialmente la condanna a morte del gen. Meinhold e il bombardamento della città con i mortai del porto e di Monte Moro.
La risposta di Pittaluga: — Abbiamo più di mille prigionieri. Non ci costringete a trattarli come criminali di guerra.
Mezzogiorno del 26: giungono al CLN notizie inquietanti. Due reggimenti germanici, in ritirata da La Spezia, hanno raggiunto Rapallo. Che cosa accadrà a Genova se riescono a stabilire i collegamenti con gli assediati di Monte Moro e del porto? Anche Genova, dunque, come Varsavia?
Non passa gran tempo che buone notizie sopraggiungono, scavalcano, alfine disperdono e annullano le cattive.
Fra le 13 e le 18, i partigiani della Cichero e della Pinan Cichero si attestano nei punti nevralgici della città; rinforzando o sostituendo i sapisti. Prendono possesso del centro;vincono le ultime resistenze della Marina tedesca in porto. Intanto altre forze partigiane della montagna tengono saldamente in mano i passi della Bocchetta, dei Giovi, della Scoffera e di Uscio: da qui scendono a bloccare la via Aurelia fra Rapallo e Nervi. Così la colonna tedesca proveniente dalla Spezia si frantuma, si assottiglia, si dissolve.
Ore 19: una interminabile schiera di prigionieri tedeschi sfila per il centro cittadino, inquadrata dai partigiani in armi.
Ore 19,15: dove sarà la Quinta Armata? — si chiede Davidson.
— Perché non telefonare a Chiavari o a Rapallo? — propone Leo — La linea funziona.
Si chiama Rapallo:
— Avete visto gli americani?
— Certo. Che cosa c’è?
— Lascia stare il perché. Andate e pescatene uno, uno qualsiasi. — Pausa. Poi da Rapallo una voce inequivoca:
— What do you want?
Così Davidson e il CLN apprendono dove si trova la Quinta Armata con il suo comandante. Non aveva incontrato ostacoli sul Bracco. Ponti e viadotti intatti. Occupata Chiavari, saliva sulle Grazie, scendeva a Zoagli, giungeva a Rapallo.
— Sono dunque vere le notizie che emette radio Genova libera? Proprio tutte vere? — si chiede Almond, comandante dell’Armata. La risposta gliela dà la telefonata di Davidson.
Con la strada aperta dai partigiani, le avanguardie angloamericane arrivarono a Nervi nella tarda serata del 26 aprile, dieci giorni prima del tempo previsto dai piani.
Era con loro Cevedali, lo scettico della Normale di Pisa, ora capitano di collegamento. Fu lui a riferire che gli alleati non riuscivano a capacitarsi come mai i tram camminassero e la città vivesse ordinata sotto il governo del CLN.
Il giorno successivo — alle ore 13 del 27 aprile — il generale Almond, comandante in capo della Quinta Armata americana, rese per primo visita al CLN, nell’Hotel Bristol. Teneva in mano un mazzo di fiori. Il gesto era un po’ goffo. Ma gli uomini del Comitato, incalliti da venti mesi di guerra, induriti dalle ottanta ore insonni dell’insurrezione, si commossero.
43 anni dopo
L’insurrezione di Genova venne definita dagli storici l’insurrezione modello: fu certo la più brillante, anche se fortunata, insurrezione cittadina di quante (da Parigi a Varsavia a Belgrado) si siano avute nella seconda guerra mondiale.
Fu l’unico caso europeo del secondo conflitto mondiale in cui un intero corpo d’armata si sia arreso alle forze partigiane.
Le conseguenze della vittoria genovese furono decisive per la fine della guerra in Italia: due corpi d’armata germanici (che già avevano ricevuto l’ordine da von Vietinghoff, che era succeduto a Kesselring, di ritirarsi ordinatamente e organizzare una forte linea di difesa sul Po), quello di stanza nel Genovesato e quello schierato sul lembo occidentale della linea Gotica (Sarzana-La Spezia), furono completamente dissolti.
Un altro corpo d’armata dislocato in Piemonte, che avrebbe dovuto coprire il fianco occidentale della linea Kesselring sul Po, rimase isolato. Le forze partigiane piemontesi poterono valorosamente sconfiggerli, raggiunsero prima dei francesi i valichi alpini, conquistarono Torino, dove l’insurrezione era divampata alle prime notizie genovesi (mattina del 24 aprile).
I nazisti furono dunque costretti a rinunciare a quella ormai famosa «ultima linea di resistenza a oltranza sul Po» per la quale Kesselring aveva predisposto da oltre un anno piani meticolosi e nella quale fino all’ultimo aveva sperato. Dovettero evacuare Milano e la guerra terminò in Italia con due settimane d’anticipo.
A subire, negli ultimi giorni d’aprile e nei primi di maggio, le violenze dei nazisti in fuga rabbiosi per la sconfitta ormai certa, furono le province venete, dove i partigiani continuarono a combattere con spirito d’abnegazione e di sacrificio esaltato, non attenuato dalla ormai sicura vittoria.
L’insurrezione di Genova e gli eventi che ne derivarono furono una degna risposta al monito di Mazzini: «Più che la servitù temo la libertà offerta in dono».
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