La festa del lavoro nel Ventennio

La parentesi storica rappresentata per l'Italia dal Ventennio fascista porta con sé significativi mutamenti nel modo di intendere il lavoro. Se da un lato Mussolini  strizza l'occhio in modo demagogico alle masse lavoratrici, dall'altro il suo regime, nel progressivo avvicinarsi alla dimensione totalitaria, soffoca la conflittualità dell'azione sindacale trasferendola in un contesto corporativo nel quale non vi è spazio né per rivendicazioni né per la simbologia di una giornata come il Primo maggio: un percorso di progressiva chiusura qui rappresentato con le parole stesse di Benito Mussolini (da: Scritti e discorsi di Benito Mussolini, edizione definitiva, Milano 1934).

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Discorso da ascoltare


(1 maggio 1919)
Articolo pubblicato sul «Popolo d'Italia» il 1° maggio 1919.

Questo discorso è diretto agli operai.
Parliamo schietto. Senza finzioni. Senza adulazioni. Così come la coscienza ci detta. È, oggi, di moda «adulare» le masse lavoratrici e precisamente quelle che lavorano manualmente. Noi ci rifiutiamo di seguire questa moda cortigianesca. Preferiamo celebrare il lavoro in tutte le sue manifestazioni dalle più eccelse alle più modeste; da quelle che trasformano la rozza materia a quelle che esprimono i moti profondi dello spirito. Adoriamo il lavoro che dà la bellezza e l'armonia alla vita, non solo quello che aumenta la possibilità del nostro benessere materiale. Ciò premesso, noi parliamo da «amici» agli operai. Amici che non chiedono nulla, assolutamente nulla. Come amici disinteressati, noi diciamo agli operai italiani che essi stanno per cadere sotto una nuova tirannia, che, oltre ad essere spietata è ridicola: alludiamo alla tirannia del partito socialista.
Quando noi meditiamo su quello che accade, ci sentiamo umiliati. Le masse operaie sono alla mercé di una classe politica, cosidetta socialista, che vuole semplicemente sostituirsi, per via dell'assiette au beurre, alla classe politica cosidetta borghese. Questo trucco volgare ha un nome sonante: si chiama dittatura del proletariato. Ci stupisce che le teste pensanti della Confederazione Generale del Lavoro, che non possono non aver avvertito il fenomeno, lo accettino passivamente anche nelle sue disastrose conseguenze. La verità è che i seicentomila organizzati della Confederazione Generale del Lavoro dipendono — come tanti schiavi — da venti o trentamila uomini che si chiamano socialisti. Costoro «giocano» le masse operaie senza consultarle mai. La condotta del partito nei rapporti del proletariato è squisitamente autocratica, assolutista, imperialista, borghese. C'è un elemento di grottesco che si delinea plasticamente. Chi sono questi cosidetti socialisti che la fanno da pastori del gregge? Perché presumono essi, ed essi soli, di essere gli interpreti genuini, i rappresentanti autentici della massa lavoratrice e quali titoli di sapienza, di saggezza, di virtù posson vantare in confronto del resto degli umili mortali? Dov'è il diritto e la ragione della loro dittatura? Non nel loro cervello, che in media non supera di capacità quello degli altri; non nel loro cuore che non può contenere più «humanitas» di quanto non ne contengano gli altri innumerevoli delle innumerevoli creature umane: il titolo della loro dittatura è un semplice cartoncino che si chiama tessera e che l'ultimo idiota, pazzo, fannullone, parassita, borghese di questo mondo può procurarsi inscrivendosi nel partito e pagando la tenue moneta di una lira.

Quando un signore qualunque è munito di quella tessera, da un giorno o da un mezzo secolo, ed è in regola colle marchette, egli cessa issofatto di appartenere alla povera nostra comune umanità: diventa un prescelto, un eletto, un veggente, un apostolo, un santo, un dio: tutte le sapienze, tutte le virtù, tutti gli eroismi gli appartengono. Quello che dice, decide, fa o non fa, rappresenta il maximum della saggezza: il cartoncino della tessera ha un magico potere per cui gli imbecilli diventano geni, i conigli leoni e la massa operaia deve ubbidire, ciecamente ubbidire, a ciò che viene stabilito da un sinedrio di uomini che non hanno mai lavorato e non lavoreranno mai, perché hanno trovato nel «socialismo» il loro mestiere, il loro pane, la loro soddisfazione, come altri trova il pane e il resto in una scuola, in un ufficio, in un campo o in una officina. C'è una nuova divinità nel mondo: la tessera. E come tutte le divinità anche questa richiede non solo incensi, ma sacrifici; non solo preci, ma sangue. I proletari vogliono o non vogliono accorgersi che sono ancora incatenati e che da una schiavitù passano a un'altra schiavitù? Gli operai che sono degni dell'aggettivo «coscienti» devono insorgere contro il rinnovato strazio che si fa della loro volontà, del loro benessere, della loro vita.
Il «partito» è un fatto estraneo al movimento operaio. Nessuno gli contesta l'esercizio del potere sui suoi inscritti; ma è cretino e criminoso permettergli l'esercizio e l'abuso del potere sul proletariato. Che il pus decida il finimondo, è affare che lo riguarda, ma che decida in assenza del proletariato e contro il proletariato, arrogandosi poi il diritto d'imperio sul proletariato stesso, è spettacolo «reazionario» e autocratico che deve finire. È tempo di stabilire nelle organizzazioni, un regime di vera democrazia. È tempo di dire che prima di inscenare qualsiasi movimento economico e politico, gli operai devono essere interpellati. È tempo di dire che gli operai non sono fantocci privi di capacità ragionante come li ritiene il partito socialista, dal momento che si «sostituisce» continuamente a loro senza interrogarli mai.
Amici operai, è in questione la vostra dignità e la vostra libertà. Provvedete! Insorgete! Prima che la tirannia rossa vi abbia schiacciati.
Un discorso di questo genere nel quale intimamente consentono — ne siamo sicuri — i dirigenti confederali — è destinato a provocare le solite accuse. Certi atteggiamenti fan ricordare il «Volete la salute? Bevete ecc.». Volete «passare» da rivoluzionari? Provvedetevi di una tessera. Ma noi, che siamo e rimarremo sprovvisti di tessera, siamo così poco «reazionari» che accettiamo quasi tutti i postulati del manifesto Confederale del 1° Maggio, manifesto che dà all'anima una sensazione di luce e di forza, mentre quello della Direzione del Partito dà un senso di buio, d'impotenza e di disperazione. La trasformazione del Parlamento e l'introduzione della rappresentanza integrale, è nel programma dei Fasci.
Sempre nel programma dei Fasci è la immediata applicazione di una legge che sanzioni la conquista proletaria delle otto ore:
la modificazione del decreto-legge per le pensioni d'invalidità e vecchiaia riducendo il limite di età a 55 anni per gli uomini e 50 per le donne;
l'immediato apprestamento dei decreti-legge per le assicurazioni obbligatorie di malattia e di disoccupazione;
un'imposta fortemente progressiva sul capitale;
l'attuazione dei conclamati provvedimenti atti a lenire e migliorare le condizioni dei mutilati e invalidi di guerra e a risolvere il problema delle abitazioni.

Facciamo le nostre riserve su alcuni postulati politici. Prescindendo da ciò, ci troviamo di fronte a un programma di realizzazione e di costruzione. Non qui, si trovano gli isterismi dittatoriali del partito socialista che sabotano più che aiutare il moto di ascensione delle masse operaie; moto che noi fiancheggiamo perché pensiamo che, se le masse lavoratrici rimangono in uno stato di miseria e di abbrutimento, non v'è grandezza di popolo, né dentro, né oltre i confini della Patria.



Passato e avvenire

(21 aprile 1922)
Questo articolo pubblicato sul «Popolo d'Italia» il 21 aprile 1922 riafferma quella riconsacrazione della data del Natale di Roma in antitesi al 1° maggio dei socialisti che era stata propugnata dal Duce nel «Discorso di Bologna» del 21 aprile 1921.

Il Fascismo italiano si raccoglie, oggi, attorno ai suoi mille e mille gagliardetti, per celebrare la sua festa e quella del lavoro nell'Annuale della fondazione di Roma. La manifestazione riuscirà severa e imponente, anche nei centri dove è stata vietata dalla polizia dietro ordine di un Governo che non sa e non vuole scegliere tra forze nazionali e forze antinazionali e finirà per morire di sua lacrimevole ambiguità.

La proposta di scegliere quale giornata del Fascismo il 21 aprile, partì da chi traccia queste linee e fu accolta dovunque con entusiasmo. I fascisti intuirono la significazione profonda di questa data.

Celebrare il natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l'avvenire. Roma e Italia sono infatti due termini inscindibili. Nelle epoche grigie o tristi della nostra storia, Roma è il faro dei naviganti e degli aspettanti. Dal 1821, dall'anno in cui la coscienza nazionale si sveglia e da Nola a Torino, il fremito unitario prorompe nell'insurrezione, Roma appare come la meta suprema. Il grido mazziniano e garibaldino di «Roma o morte!» non era soltanto un grido di battaglia, ma la testimonianza solenne che senza Roma capitale, non ci sarebbe stata unità italiana, poiché solo Roma, e per il fascino della sua stessa posizione geografica, poteva assolvere il compito delicato e necessario di fondere a poco a poco le diverse regioni della Nazione.

Certo, la Roma che noi onoriamo, non è soltanto la Roma dei monumenti e dei ruderi, la Roma dalle gloriose rovine fra le quali nessun uomo civile si aggira senza provare un fremito di trepida venerazione. Certo la Roma che noi onoriamo non ha nulla a vedere con certa trionfante mediocrità modernistica e coi casermoni dai quali sciama l'esercito innumerevole della travetteria dicasteriale. Consideriamo tutto ciò alla stregua di certi funghi che crescono ai piedi delle gigantesche quercie.

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La Roma che noi onoriamo, ma soprattutto la Roma che noi vagheggiamo e prepariamo, è un'altra: non si tratta di pietre insigni, ma di anime vive: non è contemplazione nostalgica del passato, ma dura preparazione dell'avvenire.
Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il nostro simbolo, o se si vuole, il nostro Mito. Noi sogniamo l'Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale. Molto di quel che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel Fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: «Civis romanus sum». Bisogna, ora, che la storia di domani, quella che noi vogliamo assiduamente creare, non sia il contrasto o la parodia della storia di ieri. I romani non erano soltanto dei combattenti, ma dei costruttori formidabili che potevano sfidare, come hanno sfidato, il Tempo.
L'Italia è stata romana, per la prima volta dopo quindici secoli, nella guerra e nella vittoria: dev'essere — ora — romana nella pace: e questa romanità rinnovata e rinnovatesi ha questi nomi: Disciplina e Lavoro. Con questi pensieri, i fascisti italiani ricordano oggi il giorno in cui duemilaseicentosettantacinque anni fa — secondo la leggenda — fu tracciato il primo solco della città quadrata, destinata dopo pochi secoli a dominare il Mondo.



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Agli operai del porto di Genova

(7 gennaio 1923)
L'anno 1922 si conchiude con un discorso agli operai e allo stesso modo s'inizia, il 7 gennaio 1923, la serie dei discorsi dell'anno seguente. Una Commissione di rappresentanti di tutte le organizzazioni del porto di Genova aveva offerto al Duce a palazzo Viminale un'artistica pergamena con la seguente dedica:
«A Benito Mussolini - Primo Ministro della Nuova Italia - I lavoratori del porto di Genova - Dal Fascismo redenti a nuova vita - 1° gennaio 1923».
In tale occasione, Egli pronunziò le seguenti dichiarazioni:

Certamente voi sapete che io ho molte simpatie per Genova; simpatie che risalgono al 1915, quando Genova, insieme con Milano e con Roma, costituì una delle forze che iniziarono la rivoluzione; poiché la rivoluzione che ha condotto il Fascismo al potere è cominciata nel maggio 1915, è continuata nell'ottobre 1922 e continuerà per un pezzo. Sono molto lieto di accogliere il vostro messaggio e vi ringrazio con tutta la mia sincera cordialità. Debbo dirvi che il Governo che ho l'onore di presiedere non ha mai inteso, non intende e non può intendere una politica cosiddetta antioperaia, anzi io vorrei fare un elogio del popolo lavoratore che non crea imbarazzi al Governo, lavora ed ha abolito praticamente gli scioperi. Si è rendento perché non crede alle utopie asiatiche che ci venivano dalla Russia; crede in se stesso, nel suo lavoro: crede nella possibilità, che per me è certezza, di una Nazione italiana prosperosa, libera e grande.
A questa grandezza voi siete direttamente interessati, e voi che venite da un centro di vita così fervido, come Genova, siete i più indicati a sentire tutto questo fermento di vita nuova, tutta questa preparazione alacre del nuovo destino.

Il Governo, voi lo vedete, governa; governa per tutti, al di sopra di tutti e se è necessario contro tutti. Governa per tutti perché tiene conto degli interessi generali; governa contro tutti quando categorie, siano di borghesi, siano di proletari, vogliono anteporre i loro interessi a quelli che sono gli interessi generali della Nazione. Io sono sicuro che se il popolo lavoratore, di cui voi siete la minoranza aristocratica, continuerà a dar questo spettacolo nobilissimo di calma, di disciplina, la Nazione che era sull'orlo dell'abisso si riscatterà pienamente. Non dico frasi che non siano pensate e meditate: dopo due mesi di Governo vi dico che se la rivoluzione fascista avesse tardato ancora qualche mese, e forse soltanto qualche settimana, la Nazione sarebbe piombata nel caos. Tutto quello che facciamo è in fondo lavoro arretrato: liberiamo i cittadini dal peso delle leggi che erano il frutto di una politica di demagogia insulsa, liberiamo lo Stato da tutte le superstrutture che lo soffocavano, da tutte le sue funzioni economiche per le quali non è adatto; lavoriamo per andare al pareggio; il che significa rivalutare la lira; il che significa prendere una posizione di dignità e di forza nel mondo internazionale.
L'Italia che noi vogliamo fare, che costruiamo giorno per giorno, che noi faremo, perché questa è la fede e la nostra volontà incrollabile, sarà una creatura magnifica di forza e di saggezza. E potete essere certi che in questa Italia, il lavoro, tutto il lavoro, quello dello spirito e quello del braccio terrà come deve tenere il primo posto.




Decreto 19 aprile 1923

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