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La fine del Viaggio del Gattaio
Già alla fine del XIII secolo la fascia dei potenziali acquirenti dei prodotti di lusso si è allargata e per arricchirsi, o anche solo mantenere il passo con i concorrenti, i mercanti devono effettuare acquisti su più ampia scala ed evitare gli intermediari. Per quanto la documentazione genovese rappresenti soprattutto la patologia del sistema - le cause ereditarie dei mercanti che non ritornano -, i rischi sono realmente altissimi, amplificati dalle distanze, dai terreni impervi, dai rovesci del clima, da soggiorni che durano necessariamente molti anni. I fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi, che con l’appoggio anche economico della famiglia Doria affrontano nel 1291 un percorso mai tentato prima «per andare attraverso il mare Oceano fino all’India e riportare da laggiù utili mercanzie», non torneranno più in patria, come il loro congiunto Benedetto, che trent’anni più tardi raggiunge l’India e vi trova la morte.
AS Ge, Notai antichi, 262, cc. 136v.-137r. Bibliografia: Revelli, n. XIV, pp. 449-450; Tutti i genovesi, pp. 62-64; Genova, tesori, pp. 82-83.
| 1324, marzo 6, Genova Tenca fu Giovanni de Tencarariis, console di giustizia di Genova per il borgo, su richiesta di Leone di Ricaldone, curatore dell’eredità di Benedetto Vivaldi, e dei creditori di quest’ultimo, partito nel 1315 e morto in India, decreta che Percivalle Stancone possa investire nel commercio i beni a lui pervenuti di proprietà del defunto Benedetto e trasmetterne quindi i guadagni a Genova. |
Trent’anni dopo l’impresa di Ugolino e Vadino, un componente della famiglia Vivaldi è riuscito a raggiungere l’India, forse passando attraverso il khanato di Persia. Nel 1315 Benedetto Vivaldi è salpato da Genova con la galea di Angelino de Mari, diretta verso i territori dell’Impero Bizantino (versus Romaniam), portando con sé la somma di 303 lire, 17 soldi e 6 denari affidatagli a commenda dai parenti Filippo, Simone e Ginevra. La notizia della sua morte, avvenuta in India, è giunta già da tempo in patria, come risulta dal fatto che la cura della sua eredità è stata affidata a Leone di Ricaldone il 3 aprile 1322. L’investimento (racio) affidato al defunto è pervenuto in qualche modo (ex causa accomendacionis vel alio titullo) nelle mani di un altro genovese al momento in India, Percivalle Stancone, che ha fatto pervenire a Genova la notizia di essere disposto a farlo fruttare o inviarlo in Occidente solo dietro incarico degli aventi diritto e a loro rischio e pericolo. I creditori aderiscono alla richiesta di Percivalle e si impegnano a mantenere indenni i beni di quest’ultimo da qualsiasi rischio derivante dalla gestione del denaro e dall’invio a Genova dei relativi proventi. Il documento è avallato dal curatore dell’eredità, che risulta aver già assolto l’onere di redigere l’inventario dei beni del defunto. Tra i testimoni figura Benedetto Anfossi, della stessa famiglia di quel Tommaso che aveva fatto parte nel 1287 dell’ambasceria di Rabban Saumâ.
Non sappiamo per quanto tempo la causa ereditaria sia rimasta aperta e se la moglie di Benedetto, Bianca del fu Nicola Bianco, abbia almeno recuperato per intero la dote che il fratello Leonardo aveva saldato per lei, il 10 marzo 1312, versando le 400 lire rimaste da pagare in base all’atto di dote dell’8 luglio 1410 (Notai ignoti, 8, frammento 93 q). Migliore fortuna avrà invece Percivalle Stancone, che fa testamento a Genova il 23 gennaio 1355 per provvedere ai diritti del figlio che sta per nascere. Padrone di due case, una a Genova e l’altra a Quarto, possiede in loco ben due sepolcri, nel monastero di San Francesco e nella chiesa di San Giovanni; può disporre per sé un funerale che costi dalle 10 alle 25 lire e destinarne altre 25 in distribuzione ai poveri pro anima; è padre di quattro figli, tutti nati dalla moglie Giacomina, figlia di Nicolò Spinola fu Damiano, e minori di diciassette anni; dispone di un patrimonio sufficiente a restituire la dote alla moglie, a fornire alle figlie Margherita, Marta e Caterina il mantenimento fino ai 15 anni e titoli delle Compere per 300, 250 e 200 lire che con i relativi proventi ne costituiscano la dote, e a garantire un’eredità al figlio Andrea e al nascituro (Notai antichi, 358.1, cc. 17v.-19r.). La fortuna non sembra aver abbandonato la sua famiglia nemmeno negli anni successivi: il 13 marzo 1360 la dote di Margherita – che secondo le consuetudini genovesi sceglierà poi di chiamarsi Orietta – ammonta a 900 lire, a cui si aggiungono le 100 promesse come antefatto (dono di nozze) dal marito Ettore di Negro fu Giorgio. Nella controversia che, alla morte di questi, vede Margherita opporsi nel 1379 al curatore ereditario Nicolò Millomi, la donna è condannata alla defalcazione dai suoi diritti del doppio del valore dei monili e bottoni di perle veraci che non ha manifestato come proprietà del marito, ma vede riconosciuto il suo diritto alla restituzione del corredo, del valore di 300 lire e nel quale figurano vesti di lusso, una collana d’ambra e un pettine d’avorio (Notai antichi, 444, n. 35).
Il commercio con Tabriz, tappa intermedia nel viaggio verso la Cina, subisce il contraccolpo della crisi politica che spezza l’unità della Persia alla morte del khan Abu Sa’id, nel 1334. Il percorso da Trebisonda a Tabriz passa sotto il rigido controllo dell’Officium Gazarie e dei magistrati genovesi che svolgono sul posto le funzioni di console.
1341, settembre 6, Genova Norme dell’Officium Gazarie relative al commercio con la Persia.
AS Ge, Manoscritti membranacei, III, c. 31v. Bibliografia: Imposicio Officii Gazarie, col. 349; Mercanti, pp. 95-97.
| Le disposizioni dell’Officium Gazarie – la magistratura che legifera e mantiene il controllo giudiziario sulla navigazione per l’Oriente e il Mar Nero, il Mediterraneo orientale e l’Atlantico – in relazione al commercio con la Persia sono molto rigide, forse in ragione del periodo di grave crisi politica che già da alcuni anni agita il khanato di Persia a causa di lotte interne. La via carovaniera che porta da Trebisonda, sulla costa sud orientale del Mar Nero, a Tabriz, in Azerbaijan, è controllata dai due magistrati genovesi che svolgono nelle rispettive città le mansioni di console e che impongono ai mercanti restrizioni e controlli altrove sconosciuti: in Persia si esercita la mercatura solo dietro licenza del console di Tabriz, e per un periodo massimo di 4 mesi; si vende e si compra nei limiti delle merci e del denaro contante che si è portato con sé, con obbligo di rendere conto dei propri affari dinanzi al locale ufficio di Mercanzia; è proibito associarsi con mercanti stranieri e addirittura viaggiare con loro, a meno che non siano greci di Trebisonda, e ospitarli nelle proprie abitazioni nelle città di Tabriz e Soldania; per evitare brogli si arriva a controllare il patrimonio degli stranieri che accompagnano i mercanti come servi e collaboratori, e che non devono possedere più di 2000 bisanti; perfino il nolo degli animali da soma è accentrato nelle mani dei consoli, attraverso tre boni homines che a Trebisonda e a Tabriz scelgono gli animali e contrattano il loro prezzo. |
Malgrado queste precauzioni, il commercio con la Persia appare sempre più problematico. Il 7 giugno 1340 Genova proclama il blocco dei commerci (devetum) contro Tabriz e le altre terre dominate dal tiranno al-Ashraf. Reiterato il 12 aprile 1342, il provvedimento viene sospeso due anni più tardi a seguito dell’arrivo di un’ambasceria del sovrano, che promette pace e libertà di commercio. Contrariamente agli accordi, i mercanti rientrati in Persia vengono attaccati, derubati, molti anche uccisi, con un danno economico di oltre 200.000 lire. Le trattative diplomatiche con i successori del tiranno non daranno le necessarie garanzie di sicurezza per la ripresa dei commerci.
AS Ge, Notai antichi, 33, c. 223v. Bibliografia: Lopez, Su e giù, n. XIII, pp. 134-135; Tutti i genovesi, pp. 65-66. | 1344, gennaio 26, Genova L’Ufficio degli Otto Saggi della Navigazione e del Mar Nero, su richiesta di Goffredo Gentile, assolve suo figlio Tommasino dall’accusa di aver contravvenuto alla proibizione di recarsi a Tabriz, città che ha attraversato nel viaggio di ritorno verso Genova, dopo aver rinunciato al proposito di recarsi in Cina a causa di una malattia. |
Il viaggio di Tommasino Gentile, peraltro interrotto, fu forse uno degli ultimi tentativi di un mercante occidentale di raggiungere la Cina. L’itinerario prescelto era probabilmente quello che attraversava l’Irak e proseguiva verso Ormuz, dove il viaggio verso la Cina terminava a bordo di fragili navi. Caduto ammalato a Ormuz, Tommasino Gentile affida i suoi beni ai compagni, che proseguono il viaggio, quindi ritorna indietro passando attraverso Tabriz. L’esistenza di una causa di forza maggiore e il fatto che Tommasino non portasse merci con sé ma fosse solo in cerca de salubri et oportuno remedio – come testimoniato da lettere di persone degne di fede e da cittadini esperti in materia – inducono gli Otto Saggi, la magistratura preposta alla navigazione nel Mar Nero meglio nota come Officium Gazarie, a non applicare al suo caso le forti penalità previste per la violazione del boicottaggio commerciale imposto contro al-Ashraf, il nuovo signore di Tabriz.
Risolto il problema del giudizio nei confronti del figlio, Goffredo Gentile passa ad occuparsi della racio, l’investimento che il giovane aveva condotto con sé, e il 24 marzo 1344 ne precisa l’ammontare in un atto rogato dal notaio Tommaso Casanova. La racio di Tommasino, che ora risulta essere nelle mani di Benedetto Pinelli pro defferendo eam ad partes Catay, era di 6270 bisanti bianchi di Tabriz, che il Pinelli ha convertito in loco voco ire de Croasam (probabilmente il Khorasan, regione situata nella parte orientale dell’Iran) in auro de danga (oro di Tanga, secondo il Pegolotti), rilasciando ricevuta (apodisia facta propria manu) a Tommasino. Nella racio erano compresi 804 sommi d’argento, 3 saggi e 4 carati di proprietà di Goffredo e dei suoi soci, che avevano investito nel viaggio 539 lire, 17 soldi e 3 denari in quote diverse così ripartite: Raffo Gentile 216 lire e 5 soldi, Giovanni Natono 137 lire, 7 soldi e 2 denari, Pietro de Carmadino 24 lire, 9 soldi e 11 denari, Goffredo 161 lire, 15 soldi e 2 denari. Goffredo dichiara inoltre che la racio comprendeva anche 52 sommi e 20 saggi di sua esclusiva proprietà (de meo proprio) e che la parte rimanente apparteneva ad altri investitori (certarum bonarum personarum) che non nomina, ma le cui quote sono segnate in alcune scritture di Tommasino (Notai antichi, 231, cc. 34r.-v.). Probabilmente anche in ragione della giovane età, Tommasino era dunque solo il socius tractans del padre e degli altri finanziatori, quindi colui che rischiava la vita ma solo una minima quota di denaro in un’impresa dalla quale avrebbe ricavato solo la quarta parte – o forse qualcosa di più, dati i rischi e la distanza – del guadagno; la stessa condizione di Iacopo de Oliverio e Benedetto Vivaldi, dei quali tornerà in patria, dalla Cina e dall’India, solo la notizia della morte e, almeno nel primo caso, la racio con i relativi profitti.
La crisi ormai dilaga anche negli altri scali della via della Seta: nel 1343, a seguito dell’uccisione di un tartaro da parte di un veneziano, tutti i Latini vengono espulsi da Tana, e Caffa è posta sotto assedio; nel 1347 il sultano d’Egitto conquista Laiazzo. Anche in Cina la dinastia mongola degli Yuan sta arrivando al tramonto e la missione che l’ultimo khan, Toghan Timur, affida nel 1336 al genovese Andalò da Savignone chiede all’Occidente solo un nuovo arcivescovo per Pechino e cavalli da parata per il sovrano.
Il ritorno di molti mercanti in patria, o la loro morte, entro la metà degli anni Quaranta, lascia supporre che le prime avvisaglie della peste nera, che in pochi anni sconvolgerà anche l’Europa, abbiano dissuaso i più dal permanere in Cina. Tra coloro che non rivedranno più Genova si contano Antonio Sarmore, che pure in Oriente ha accumulato una fortuna, e Iacopo de Oliverio, i cui proventi arricchiscono più che altro il fratello.
1347, agosto 13, Genova
Rizzardo Donato, Antonio Bosco e Antonio Macia pronunciano sentenza arbitrale in relazione alla divisione dei proventi di una societas tra i fratelli Giovanni e Iacopo de Oliverio, il secondo dei quali è morto in Cina, dove aveva vissuto per diversi anni esercitandovi attività commerciali.
AS Ge, Notai Antichi, 325/II, cc. 79v.-82v. Bibliografia: Lopez, Su e giù, pp. 180-186; Mercanti, pp. 97-98.
La serietà e precisione con la quale gli arbitri assolvono il loro compito ci permette di apprendere molti particolari sulla società contratta tra i fratelli Iacopo e Giovanni de Oliverio fu Pagano per il valore iniziale di 4.313 lire, parte delle quali investita in panni francigeni. Dei due fratelli, solo Iacopo, che ha apportato la quota minore di denaro, si assume i rischi del viaggio. Partito da Napoli, naviga alla volta della Siria, recando con sé lettere di cambio, argento e merci; consegna una grossa somma di denaro al fratello Ansaldo, che la porta con sé a Tabriz; torna a Genova a presentare il rendiconto a Giovanni, al quale toccano i ¾ del lucro. Ripartito da Genova nel 1333, Iacopo incontra a Pera il fratello Ansaldo, di ritorno da Tabriz, e parte con lui alla volta della Cina, dove si ferma per molti anni, raggiunto anche dal nipote Franceschino, figlio di Giovanni, trafegando, negociando et mercando. Dopo la morte dei congiunti, dalla Cina ritorna a Genova – nel 1345! – il solo Ansaldo, portando con sé i beni e, forse, anche il testamento di Iacopo, scritto in partibus Catagii, in assenza di notai pubblici, dal genovese Domenico Ilioni. Il rendiconto della società stipulata tra i due fratelli viene valutato dagli arbitri nella somma di 22.000 lire, oltre cinque volte maggiore del capitale iniziale. Nella divisione, peraltro, il defunto Iacopo appare come una sorta di salariato, non come un socio di Giovanni, e la sua parte viene ulteriormente decurtata delle spese sostenute dal fratello per il mantenimento della sua famiglia durante la sua assenza: imposte, vitto, vestiti e altre necessità, anticipate in mutuo da Giovanni alla cognata Grimalda, con tanto di interesse. Nel 1346 Ansaldo partecipa, come patrono di una delle 29 galee genovesi, all’impresa di Simone Vignoso, e figura tra i firmatari delle convenzioni di resa di Chio e di Focea Nuova. A fare fortuna come appaltatore dell’isola sarà invece il fratello Giovanni, forse sfruttando il proprio ruolo di capo della famiglia e di detentore dei maggiori capitali.
Domenico Ilioni, che ha redatto il testamento di Iacopo de Oliverio e che forse svolgeva in Cina un ruolo paragonabile a quello di console dei mercanti genovesi, ha portato (o si è creato) nel Cathay una famiglia testimoniata da due figli, Caterina e Antonio, che gli sopravvivono di pochi anni. Di loro esistono ancora a Yang-tcheou le lapidi tombali, rinvenute nel 1957. Scritte in caratteri gotici, forniscono le date della morte dei due giovani: Caterina, nel giugno del 1342, Antonio nel novembre del 1344. Le due lapidi, di chiara fattura cinese, sono elegantemente decorate: la prima, con l’immagine della Madonna con il Bambino e il martirio di Santa Caterina; la seconda, con l’effigie di Cristo in trono e la presentazione di un bambino a Sant’Antonio.
Lapidi tombali di Caterina e Antonio Vilioni, 1342 - 1344.
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L’avvento della dinastia Ming, nel 1368, chiuderà agli occidentali la via del Cathay.