Il testo del frammento

Il testo riportato sul frammento, corrispondente ai versi Paradiso, XXII, 40-154 / Paradiso, XXIII, 1-63, è qui trascritto con le varianti e le caratteristiche grafiche (ad es. la ç al posto della z) presenti nel manoscritto.

e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra adusse
la verità che tanto ci soblima; 42

e tanta grazia sovra me rilusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse. 45

Questi altri fuochi tutti contemplanti
huomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere fiori et fructi santi. 48

Que Maccaris, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro al chiostro
fermaro i piedi et tenero il cuor saldo». 51

E io allui: «L’effecto che dimostri
meco parlando, a la buona sembiança
ch’i veggio e noto in tucti li ardor vostri, 54

così m’a dilatata mia fidança,
come ’l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant’ella a di possança. 57

Però ti priego, et tu, padre, m’accerta
s’io posso prender tanta grazia, ch’io
ti veggia con ymagine scoverta». 60

Ond’elli: «o frate, il tuo caldo disio
s’adempierà in su l’ultima spera,
ove s’adempion tutti li altri e ’l mio. 63

Ivi è perfecta, matura et intera
ciascuna disïanza; in quella sola
et ogni parte là ove sempre era, 66

perché non è in loco e [non s’i]mpola;
et nostra scala fino ad essa varca,
onde così dal viso ti s’invola. 69

Infinfin làssù la vide il patriarca
Iacob porger la superna parte,
quando li apparve d’angeli sì carca. 72

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, et la regola mia
rimasa è per danno de le carte. 75

Le mura che solieno esser badia
facte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria. 78

Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel fructo
che fa il cuor de i monaci sì folle; 81

ché quantumque la Chiesa guarda, tutto
et de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti et d’altro più brutto. 84

La carne di mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
al nascer de la quercia a far la ghianda. / 87

Pier cominciò sanç’oro e sanç’argento,
e io con orazione et con digiuno,
a Francesco humilemente il suo convento; 90

et se guardi il principio di ciascuno,
poscia riguardi là dove trascorso,
tu vederai del bianco facto bruno. 93

Veramente Giordan vòlte retrorso
più fu, il mal fuggire, quando volse,
mirabile a veder che qui il soccorso». 96

Così mi disse, et indi si ricolse
al suo colleggio, el collegio si strinse;
poi, come turbo, tucto in se s’accolse. 99

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse; 102

né mai qua giù dove si monta et cala
naturalmente, fu sì racto moto
ch’agguagliar si potesse a la mia ala. 105

S’io torni mai, lector, a quel d[ivoto]
trïunfo per lo qual io piango spesso
le mie peccata e ’l pecto mi percuoto, 108

tu non avresti in tanto tracto et messo
nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
che segue il Tauro et fui dentro da esso. 111

O glorïose stelle, e lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tucto, qual chessi sia, il mio ingegno, 114

con voi nascea et s’ascondeva vosco
quelli che padre d’ogne mortal vita,
quand’ io senti’ di prima l’aer tosco; 117

et poi, quando mi fu gratia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita. 120

A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira. 123

«Tu se’ sì presso all’ultima salute»,
cominciò Bëatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e agute; // 126

e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, et vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei; 129

sì che ’l tuo cuore, quantunque è, giocondo
s’apresenti a la turba trïunphante
che lieta vien per questo et hera tondo». 132

Col viso ritornai per tucte quante
le septe spere, et vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante; 135

et quel consiglio per migliore aprobo
che l’a per meno; et chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo. 138

Vidi la figlia di Latona incensa
sança quell’ombra che mi fu cagione
per che già la credecti rara et densa. 141

L’aspecto del tuo nato, Inperïone,
quivi sostenni, et vidi come si move
circa et vicina allui Maia et Dïone. 144

Quindi m’aparse il temporar di Giove
cal padre e ’l figlio; et quindi mi fu caro
il varïar che fenno di lor dove; 147

et tucti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi et quanto son veloci
et come sono in distante riparo. 150

L'amiuola che ci fa tanto feroci,
vogliendomi collei et li Gemelli,
tucta m'aparve da' colli alle foci; 153

poscia [riv]olsi li occhi a li occhi belli.


Canto XXIII. Come l’autore vide la Beata Vergine / Maria et li habitatori de la celestiale corte, de la quale / mirabilemente favella in questo canto et qui si prende / la nona parte di questa terça cantica.


Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la nocte che le cose ci nasconde, 3

che, per veder li aspecti disïati
et per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labori li sono agrati, 6

previene il tempo in su aperta frasca,
et con ardente affecto il sole aspecta,
fiso guardando par che l’alba nasca; 9

così la donna mïa stava erecta
et attenta, rivolta inver la plaga
socto la quale il sol mostra men frecta: 12

sì che, veggendol’io sospesa a vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, et sperando s’apaga. / 15

Ma poco fu tra uno et altro quando,
del mio attender, dico, et del vedere
lo ciel venir più et più rischirando; 18

et Bëatrice disse: «Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo et tutto il fructo
ricolto del girar di queste spere!». 21

Parvemi che ’l suo viso ardesse tucto,
e li occhi avea di letitia sì pieni,
che passar mi conven sança costructo. 24

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninphe eterne
che dipingono il ciel per tucti seni, 27

vid’io sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendeva,
come fa ’l nostro le viste superne; 30

et per la viva luce traspareva
la lucente sustança tanto chiara
nel viso mio, che non la sosteneva. 33

Oh Bëatrice, dolce guida et cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobrança
et virtù da cui nulla si ripara. 36

Quiv’è la sapïença e la possanza
c’aprì le strade intra ’l celo e la terra,
onde fu già sì lungha disïança». 39

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
et fuor di sua matera in giù s’atterra, 42

la mente mia co[sì, tra q]uelle dape
fatta più grande, di sé stesso uscìo,
et che si fesse rimembrar non sape. 45

«Apri li occhi et riguarda qual son io;
tu ai vedute cose, che possente
se’ facto ad sostener lo viso mio». 48

Io era come quei che si risente
di visïone oblita et che s’ingegna
indarno de ridurlasi a la mente, 51

quand’ io udi’ questa perfecta, degna
di tanto grado, che mai non si stingue
del libro che ’l preterito rasegna. 54

Se mo sonasser tucte quelle lingue
che Polimina colle sue suore fero
del lacte loro dolcissimo più pingue, 57

per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando al santo riso
et quanto il santo aspecto facea mero; 60

et così, figurando il paradiso,
convien saltare il sacrato poema,
come chi trova suo camin riciso. // 63




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